di E.A.S.T. (Essential Autonomous Struggles Transnational)
Dall’inizio della guerra in Ucraina, come EAST abbiamo cercato di reinventare la nostra iniziativa politica in un contesto in cui la totale distruzione prodotta da una nuova guerra ha rafforzato la violenza patriarcale e le gerarchie razziste e ha peggiorato le condizioni di lavoro e di vita di lavoratori e lavoratrici, migranti, donne e persone Lgbtq+. Con questo spirito abbiamo partecipato alle riunioni dell’Assemblea Permanente contro la Guerra e il primo maggio abbiamo sostenuto l’appello Strike the war!, per trasformare le consuete celebrazioni della giornata delle lavoratrici e dei lavoratori in un’occasione per mostrare i nostri legami e costruire insieme una politica transnazionale di pace. In vista del prossimo incontro dell’Assemblea Permanente contro la Guerra del 3 luglio, e come passo preparatorio verso il meeting transnazionale di Sofia della Transnational Social Strike Platform, pubblichiamo una riflessione e un resoconto della nostra discussione sulla guerra in Ucraina e sulle lotte nella riproduzione sociale.
È necessario dare visibilità alle condizioni che rifugiati e migranti, donne, persone Lgbtq+, lavoratrici e lavoratori stanno affrontando nel nuovo scenario che la guerra sta creando. È quindi di fondamentale importanza assumere una posizione politica che vada oltre l’analisi geopolitica e metta al centro le lotte di tutte e tutti coloro che svolgono un lavoro essenziale nell’Europa centrale e orientale. La guerra in Ucraina ha reso invisibili queste condizioni di riproduzione sociale: lo smantellamento del welfare che ha fatto pesare sulle donne il lavoro riproduttivo, nel proprio paese e all’estero; le maternità surrogate come modo per compensare salari impoveriti; le riforme del lavoro, dell’agricoltura e della pubblica amministrazione che hanno peggiorato le condizioni di lavoratrici e lavoratori. Allo stesso tempo, la guerra in Ucraina ha messo ulteriormente in luce anni di riforme neoliberiste dell’UE, le sue politiche razziste di cittadinanza e di appartenenza e l’ipocrisia del suo umanitarismo. Questo neoliberismo razzista è vissuto quotidianamente dai migranti e da lavoratrici e lavoratori precari nei paesi dell’UE e ai suoi confini. Come femministe abbiamo il compito di rendere visibili queste crisi che sono state esacerbate dalla guerra, così come ha fatto il movimento femminista transnazionale che ha reso visibile la violenza patriarcale contestandola pubblicamente.
La guerra divide ed è proprio per questo che, come EAST, dobbiamo affrontare le profonde contraddizioni che emergono da questa nuova normalità bellica. Abbiamo il problema di prestare attenzione alle differenze locali, che emergono sotto forma di polarizzazioni del dibattito pubblico soprattutto nei paesi ex socialisti. Ad esempio, mentre alcuni paesi come Bulgaria e Serbia stanno vivendo massicce mobilitazioni di partiti e movimenti fascisti filorussi che sostengono l’invasione di Putin in Ucraina, la Romania, la Polonia e i Paesi Baltici stanno affrontando il rinnovato rafforzamento della NATO e dovrebbero essere ‘il fianco orientale’ nella guerra contro Putin.
Ciò che unisce questi poli ‘apparentemente’ opposti è che entrambi stanno rafforzando le posizioni nazionalistiche e di (ultra)destra nei rispettivi contesti. Queste dinamiche impattano sui movimenti sociali, sui sindacati e su tutte e tutti coloro che cercano modi per lottare contro la guerra e i suoi effetti. Il nostro compito è comprendere l’origine di queste differenze locali e costruire un discorso diverso che possa superarle. Partendo dalle nostre lotte nella riproduzione sociale – da donne, persone Lgbtq+, lavoratrici e lavoratori e migranti che stanno lottando anche in queste nuove circostanze, ma in condizioni più difficili – dobbiamo tradurre la nostra iniziativa politica transnazionale in contesti locali. Il capitalismo avanza attraverso la guerra e questo avanzamento si mostra diversamente su scala globale, a livello degli Stati-nazione di tutto il mondo, o da quello delle nostre vite quotidiane. Con E.A.S.T., cerchiamo di sviluppare una posizione che funzioni su tutti i livelli; una posizione che possa opporsi alla guerra in Ucraina e alle numerose guerre in tutto il mondo, che hanno più o meno marcatamente ripercussioni in Europa.
Per orientarci in questa complessità, in questa rete che unisce guerra e militarizzazione, crisi economiche e politiche economiche, lotte di lavoratrici e lavoratori e riproduzione sociale, sottolineiamo alcuni punti per noi centrali.
Critica della militarizzazione e delle false dicotomie
Dobbiamo rovesciare il ‘campismo’ pubblico che ci costringe a schierarci o con il regime di Putin o con le democrazie neoliberali del cosiddetto ‘Occidente’. Le spese militari, sia in Ucraina sia in altri Paesi dell’UE, sono pagate con l’aumento del carico di lavoro sulle donne, che sono incaricate di far quadrare i conti in situazioni disperate. L’incremento della circoscrizione obbligatoria è un motivo in più per costringere le donne a mantenere il loro ruolo subordinato nella riproduzione sociale. Lottiamo per la libertà delle donne e delle persone Lgbtq+ in tutti i paesi, per non essere costrette a lavorare per salari miseri come collaboratrici domestiche, addette alle pulizie, cameriere, operaie nelle fabbriche e nei magazzini. Lottiamo perché le donne non siano costrette a prendere parte in azioni militari e a non poter lasciare l’Ucraina perché identificate nei loro passaporti come ‘uomini’. L’autodeterminazione nazionale non è il nostro obiettivo se mira all’inclusione in una società neoliberale in cui le ricompense e il prezzo pagato sono distribuiti in modo così ineguale tra generi, sessi, etnie e classi.
Integrazione dell’Ucraina nel progetto neoliberale europeo
Nel dibattito pubblico si dice che gli ucraini stanno combattendo una ‘guerra europea’. Ma il processo di integrazione o di associazione all’UE significa valorizzazione delle periferie orientali come serbatoio di forza lavoro a basso costo, riduzione dei diritti di lavoratori e lavoratrici, attacco alla contrattazione collettiva e precarizzazione del lavoro e della vita, gerarchizzazione dello spazio europeo in base a ‘gradi di bianchezza’ e imposizione di gerarchie razziste tra migranti e rifugiati e rifugiate in base al colore della pelle e agli interessi nazionalistici dei paesi di accoglienza (ad esempio, respingimenti al confine tra Polonia e Bielorussia, nei Balcani, nel Mediterraneo, accordi tra UE e Turchia). Il nostro problema è quello di non rimanere intrappolati in una battaglia tra il brutale autoritarismo di Putin da un lato e il progetto neoliberale europeo dall’altro. Dobbiamo attirare l’attenzione sulla continua ‘guerra contro i poveri’ che riduce drasticamente la vita dei lavoratori precari e informali. Come in molti altri luoghi del mondo e in epoche precedenti, anche in Ucraina la guerra viene utilizzata come opportunità per una riforma neoliberista. La riforma del lavoro, la legge agraria e la legge sui procedimenti giudiziari si inseriscono nel piano di ‘ricostruzione di migliori tipi di riforme neoliberali’. Ad esempio, il Center for Economic Policy Research presenta la ricostruzione dell’Ucraina come «un’opportunità unica per ricostruire il Paese in modo moderno, sicuro ed eurocentrico», per de-sovietizzare le politiche pubbliche e lo spazio pubblico (non diversamente dalle riforme della cosiddetta Terapia d’urto degli anni ’90), ispirandosi alla ‘ricostruzione’ dopo altre imprese militari come le guerre in Iraq e in Afghanistan. La ricostruzione post-bellica sarà un campo di battaglia tra diversi movimenti sociali, risorse e tipi di capitale d’investimento, percorsi per le politiche pubbliche. Non solo l’UE è coinvolta, ma verranno stanziati anche fondi del FMI, condizionati da termini neoliberali. Il capitale globale è già coinvolto: i fondi di investimento immobiliare dichiarano sulle loro piattaforme di voler sostenere la ricostruzione, acquistando allo stesso tempo terreni a basso costo in Ucraina per costruire futuri sviluppi redditizi nel Paese.
La guerra ha riconfigurato le condizioni dei migranti in Europa e altrove
In Russia, su 1 milione di rifugiati della guerra del 2014, solo pochi (0,2%) hanno ricevuto lo status giuridico di sfollati; gli altri hanno dovuto affrontare normative diverse in materia di status. Molte persone sfollate a causa della guerra nelle regioni orientali dell’Ucraina sono state deportate con la forza in Russia, comprese le denunce di trasferimento forzato di bambini ucraini nell’ambito di presunti aiuti umanitari all’Ucraina. I gruppi della rete E.A.S.T. sono già a conoscenza di tali difficoltà derivanti da guerre precedenti o in corso, come la guerra in Siria: ad esempio, in Turchia, 95.000 rifugiati hanno un visto di 90 giorni senza ottenere lo status di rifugiato. L’identificazione delle donne dell’Europa orientale come prede sessuali è stata ravvivata dall’ondata di rifugiati e dall’aumento della violenza nei loro confronti. In Italia, la guerra sta impoverendo le rimesse e i salari dei e delle migranti – la maggior parte dei quali sono donne impiegate in lavori essenziali – che sono nel Paese da molti anni e ora sostengono amici, amiche e parenti in fuga. Il razzismo istituzionale sta già colpendo i rifugiati ucraini sotto il ricatto del permesso di soggiorno che lega la loro vita a contratti di lavoro. I rifugiati sono messi gli uni contro gli altri dal regime neoliberista dell’UE, costretti a competere per il lavoro in condizioni inadeguate, per i salari precari e per la possibilità di ricevere permessi. In Italia ci sono enormi difficoltà nell’ottenere i visti se non si è cittadini dell’UE, a causa delle lunghe liste d’attesa; gli appuntamenti gratuiti per gli uffici per il rilascio dei documenti sono ora riservati ai rifugiati ucraini e, se non si è ucraini, tutto ciò che si può ottenere sono appuntamenti molto costosi. In relazione a ciò, si rafforzano il razzismo e le nuove gerarchie tra gruppi precari, ad esempio nei confronti dei rom. In Bulgaria, i rifugiati sono stati ospitati in alberghi, i cui proprietari hanno ricevuto fondi pubblici. Ma poiché questi aiuti pubblici erano previsti fino al 31 maggio, la situazione è ora caotica: le persone vengono trasferite in località turistiche invernali che, a differenza degli hotel sul mare, sono lontane da strutture sanitarie e di assistenza all’infanzia e le possibilità di trovare un lavoro sono molto limitate; altre vengono direttamente collocate negli stessi campi profughi in cui i rifugiati siriani, afghani e nordafricani hanno lottato per anni contro le pessime condizioni di vita; altre ancora vengono lasciate all’ignoto per sopravvivere da sole senza alcuna possibilità di alloggio. È per questo che in questo momento sono più gli ucraini e le ucraine che lasciano la Bulgaria e tornano in Ucraina di quelli che arrivano nel Paese per cercare rifugio. Lo stesso vale per gli altri Paesi, come la Repubblica Ceca, in cui non esiste un piano concreto di aiuti ai rifugiati, e alcuni di essi stanno già tornando in Ucraina in mancanza di altre opzioni. Ma non tutti partiranno e sarà necessario impegnarsi in un’azione politica a lungo termine con le e i migranti, per la libertà di tutte le persone in movimento.
Salari, prezzi dell’energia, crisi ambientale
L’alta inflazione sta rafforzando il comando sul lavoro e milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nel Sud globale, rischiano di morire di fame a causa della speculazione sui prezzi di cibo ed energia. In Russia, la guerra ha comportato tagli su tutto (istruzione, sanità, ecc.) già prima dell’invasione. Ci sono dure conseguenze economiche per le popolazioni dell’Europa dell’Est e dei Paesi balcanici, strette tra le potenze in guerra (Russia, NATO, Unione Europea) e, oltre queste, dalle richieste del capitale di continuare a estrarre profitti attraverso e per tutta la durata della guerra. In termini pratici, ciò significa scarsità di benzina, prezzi inaccessibili per i prodotti di base e ulteriori limitazioni alla mobilità – dove la pandemia ha già reso più difficili gli spostamenti dei migranti. L’Ucraina è importante per la Russia anche come via di transito per le esportazioni di gas russo. Allo stesso tempo, la capacità dell’Occidente di rispondere a Putin è stata limitata dalla dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili. Invece di abbandonare l’estrazione, l’industria estrattiva sta sfruttando la guerra in Ucraina per chiedere una maggiore estrazione, spesso con metodi più pericolosi per l’ambiente (come la fratturazione idraulica per il gas di scisto o le centrali nucleari sperimentali). Porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili significherebbe aggirare l’aggressione russa in Ucraina, così come altri Stati ricchi di risorse come l’Arabia Saudita, che ricorre alla violenza senza conseguenze internazionali grazie alla sua forte posizione economica di esportatore di petrolio, e Stati coloniali come il Canada e gli Stati Uniti, che si impegnano nell’estrazione di risorse attraverso lo sfollamento e l’espropriazione delle popolazioni indigene. In definitiva, gli effetti negativi dell’estrazione delle risorse e del cambiamento climatico sono a carico delle comunità povere e diseredate, di cui si fanno carico le donne a livello globale. Accelerare la transizione verde, interrompere la dipendenza dai combustibili fossili e affrontare il cambiamento climatico in generale è una questione di classe, quindi deve essere accompagnata da politiche concrete per alleviare il suo costo socioeconomico.
Queste difficili condizioni pongono la sfida di come creare una comunicazione politica tra tutte e tutti coloro che stanno vivendo le conseguenze immediate della guerra: in Ucraina, dove la guerra non significa solo uccisioni di massa e stupri, ma viene anche strumentalizzata dal governo per far passare in silenzio una riforma del lavoro; ai confini e nei paesi di accoglienza, dove vengono imposte nuove gerarchie tra migranti; nel mercato del lavoro dell’UE, dove i lavoratori sono spinti a costruire attrezzature militari che saranno utilizzate per uccidere altre persone, portando alti profitti all’‘industria della difesa’; nei luoghi di lavoro e nella vita di tutti i giorni, dove i prezzi più alti significano salari più bassi, rimesse più basse e dove i migranti di lunga data stanno sopportando il peso di accogliere parenti e amici da zone devastate dalla guerra.